Sì, ci voleva una pandemia a innescare quei cambiamenti tanto desiderati quanto rimandati a tempi migliori, per poi accorgerci che sono i tempi peggiori a smuovere la nostra pigrizia e tirare fuori il meglio di noi. Ma questa non è cosa nuova, già il sociologo Quantarelli aveva creato un teorema per spiegare come la vulnerabilità in tempi di normalità sia individuale mentre a fronte di un pericolo diffuso diventa collettiva, ne parla Gabriele Romagnoli in questo editoriale fresco di giornata.
In questo meglio c’è anche lo sviluppo di una sensibilità digitale che ora dobbiamo coltivare, e non demandare alle propensioni personali, perché diventi Intelligenza Digitale a beneficio anche, del lavoro in azienda.
Un’intelligenza che sì, è collegata con l’uso della tecnologia ma che non ha niente a che fare con quella Artificiale, anzi, semmai il contrario: è proprio qui che ci giochiamo la differenza con le macchine e forse un briciolo di quel vantaggio che Paolo Vaniglia ci lascia intravedere alla fine del suo ted-x.
Ve la raccontiamo, con indicazioni pratiche di sviluppo, in questo articolo.
SE NON È SMART WORKING QUANTOMENO È UN PASSO OLTRE
Gridiamo allo smart working da due settimane usando la stessa parola per includere i comportamenti più diversi e per descrivere genericamente il fenomeno di chi continua a lavorare da casa.
Un po’ di chiarezza andrebbe fatta, qui un articolo di Francesco Rotondi che, senza pur offrire una vera definizione, testimonia che smart working non è perché non c’è stato un vero riassetto dei modelli organizzativi. Anche noi abbiamo provato, lo scorso giovedì con un webinar condotto da Fabrizio Monarca, a fare chiarezza.
Ma sentiamo più forte il bisogno di sostenere questi cambiamenti più che perderci in mille precisazioni tecnicistiche che sicuramente le aziende avranno modo di approfondire.
Una delle conquiste più importanti di questo momento è la consapevolezza che SI PUO’. Si può cambiare, questo è diventato ovvio agli occhi di tutti visto che tutti siamo stati chiamati a introdurre piccoli – ma più spesso grandi – cambiamenti nella nostra quotidianità.
E le aziende si sono mostrate ricettive e reattive come mai prima nel trovare nuovi modi per preservare la continuità lavorativa mettendo in sicurezza collaboratrici e collaboratori.
Si può lavorare con qualità senza essere fisicamente in azienda ma attraverso supporti tecnologici: da una banale VPN a modelli organizzativi impostati sullo smart working (quello vero, che i più lungimiranti utilizzavano già pre-coronavirus) passando per i sistemi di video-conferenza e tools di collaboration.
Si può delegare e responsabilizzare: effetto naturale di questo lavoro a distanza che induce ciascuno a rendersi più autonomo (non hai sempre il capo o il collega a fianco a cui chiedere qualsiasi cosa), senza pregiudicare le gerarchie, ovvio, ma stimolando le persone a fare davvero proprio il lavoro. Ne parla benissimo Silvia Zanella qui.
NON È TUTTO ORO QUEL CHE LUCCICA
Attenzione però, al di là degli aspetti tecnici, giuslavoristici e organizzativi bisogna tenere in considerazione anche quelli umani.
Fate un’intervista alle persone della vostra azienda che stanno lavorando da casa e chiedete loro come stanno.
Al netto della paura che serpeggia inevitabilmente nei battiscopa delle case di tutti e dei bambini in vacanza forzata (o in collegamento pure loro), molti vi diranno che lavorare da casa è bello all’inizio, faticoso nel mentre e alienante in alcuni casi.
Siamo animali sociali, siamo prima che lavoratori e lavoratrici persone e non c’è smart working che tenga di fronte al bisogno di contatto e di relazione.
Ed è per questo che accanto a scintillanti infrastrutture tecnologiche e accurate procedure, quello di cui abbiamo bisogno per vivere al meglio il lavoro da remoto è di un’intelligenza digitale che sfoci nell’empatia digitale.
Lo stiamo vedendo in questi giorni spettinati dall’emergenza sanitaria: la tecnologia non serve solo a farci lavorare da casa.
La tecnologia può aiutarci a sentirci vicini e a creare quel contatto di cui tutti sentiamo il bisogno, pure i nostri figli in realtà hanno capito che questa non è una vacanza e ritrovare su skype i compagni di classe li riporta a una realtà lasciata alle porte del carnevale e non più ritrovata.
Non diremo mai che sia la stessa cosa: un abbraccio resta sempre un abbraccio, un bacio non parliamone, una stretta di mano trasmette calore e presenza e il caffè della macchinetta preso con il collega di scrivania è più buono di quello della Bialetti di casa (l’avreste mai detto?).
Ma la retorica non ci aiuta, l’intelligenza digitale invece sì e come funzione HR siamo chiamati a coltivarla nei confronti di chi lavora con noi per mettere tutti nelle condizioni di sfruttare al meglio queste opportunità.
Perché se è vero che le aziende portano con sé anche una responsabilità sociale, formativa ed educativa noi crediamo che un passaggio debba essere fatto su questi temi, di approccio prima ancora che strumentali.
L’INTELLIGENZA DIGITALE
Abbiamo chiarito che per lavorare bene da casa non basta possedere un collegamento, creare un account, scaricare un’applicazione o imporsi di restare incollati alla sedia anche se la lavatrice dice che il ciclo è finito.
Non è solo questione di capacità tecnologiche, di abnegazione o di social estroversione: è un atteggiamento diverso quello che siamo chiamati ad accogliere e a promuovere affinché questo up grade non rimanga dentro il recinto di una risposta all’emergenza.
L’intelligenza digitale parte dal presupposto che Virtuale è Reale, primo punto del Manifesto della Comunicazione non Ostile, e si nutre, tra le altre, delle qualità più umane e meno tecnologiche che possediamo: empatia, relazione, comunicazione, emozioni.
La sfida è pensare che vi siano due piani della stessa, identica, realtà:
- quello fisico, fatto di carne e ciccia (quest’ultima in aumento per tutti ai tempi del coronavirus),
- quello virtuale, fatto di schermi, connessioni e comunicazione spesso scritta.
Le relazioni appartengono al mondo reale (fisico e virtuale), così come la collaborazione e la comunicazione: si esprimono in modalità differenti a seconda del contesto e del canale ma non cambiano la loro natura quando si spostano su una mail, su LinkedIn o su una piattaforma di video-conferenza.
Chi è abituato a vivere le relazioni (anche) on line non avrà niente da ridire e capirà perfettamente cosa intendiamo quando parliamo di empatia e sensibilità digitale, qualcun altro invece farà fatica a comprendere, che la massima “io le relazioni le curo a tavola” è ancora in voga.
A questi richiami nostalgici nessuna infrastruttura tecnologica potrà venire in aiuto perché l’atteggiamento e la consapevolezza sono il primo motore di ogni cambiamento, senza sarà difficile che le misure messe in atto affondino le radici in un nuovo modello organizzativo. Ne parla anche Osvaldo Danzi in questo bell’articolo sul cambiamento e sull’intelligenza social(e).
E a proposito di social, basterebbe vivere LinkedIn, con la pazienza di scansare i post autoreferenziali che sempre ci saranno, e con la costanza di curare una presenza viva e attiva, per rendersi conto di cosa significa coltivare relazioni on line. Relazioni che, non è il tema di questo articolo ma lo diciamo, generano anche business o lavoro.
Lavorare per sviluppare un’intelligenza digitale significa aiutare chi lavora con noi a sentire un po’ meno la mancanza della macchinetta del caffè e a godersi la moka di casa.
Significa lavorare per condividere e coltivare un approccio più umano allo smart working e alla comunicazione interna, che la tecnologia smette di essere solo tecnologia nel momento in cui noi smettiamo di considerarci solo degli account.
Significa anche promuovere la presenza on line di collaboratrici e collaboratori, non solo per progetti finalizzati all’employer branding che si vede distante un miglio quando stanno condividendo un post aziendale su indicazione – e direttiva – dell’ufficio marketing.
LA SCRITTURA
Un alleato storico quando le relazioni si fanno distanti è la scrittura: una volta erano le lettere – con annessi piccioni – adesso sono le mail quando non è più veloce Whatsapp. Se all’atteggiamento vogliamo affiancare un mentore questo è la scrittura.
Imparare a scrivere con attenzione a chi legge è il primo passo per essere in prima battuta efficaci e, piccolo ma significativo up grade, anche vicini a chi ci legge.
Le parole, non dobbiamo dirlo noi, hanno un grande potere. Quelle scritte hanno anche un peso che al verbale non sempre viene riconosciuto. Dovrebbe bastare questo per sensibilizzare tutti ad un uso più chiaro, concreto e semplice delle comunicazioni scritte.
Ma se non bastasse pensiamo ai decreti e alle direttive di questi giorni e a quanto lavoro di traduzione è stato fatto e si sta facendo quotidianamente per renderle comprensibili a tutti.
Una maggiore attenzione alla scrittura ci serve soprattutto in due casi:
- quando vogliamo produrre un’azione (da parte di chi legge) e quindi assicurarci che il nostro scritto non sia interpretabile
- quando vogliamo prenderci cura della relazione (motivare, coinvolgere, supportare, mostrare comprensione, richiamare ecc…)
Nel primo caso le regole della scrittura efficace si fanno indispensabili, con buona pace per le subordinate, gli incisi, i periodi alla Umberto Eco (che pure le idee sulla scrittura efficace le aveva ben chiare anche lui), i costrutti complessi, i tecnicismi per addetti ai lavori, il burocratese spinto e gli orpelli che servivano solo nei temi di scuola per arrivare in fondo alle 3 facciate.
Anche la scrittura legale se n’è accorta, come spiega in questo articolo, quasi irriverente e godibilissimo, Gabriele Carrà, e se scendono dagli scranni anche i tribunali, direi che ne abbiamo ben d’onde noi che lavoriamo in azienda.
Nel secondo caso il discorso è più complesso e affascinante e ci viene in aiuto una delle più importanti business writer Annamaria Anelli in questo articolo sulla cura delle parole al lavoro. Perché, dice Annamaria, le parole non sono mai neutre e traghettano sempre, oltre a un significato, anche un senso relazionale, un sentire, un’emozione e svelano il tipo di rapporto che vogliamo costruire con chi ci legge.
ABBIAMO FINITO
In assenza di pandemie l’atteggiamento e la propensione al cambiamento sono due necessari alleati dello sviluppo delle aziende in ottica di digitalizzazione.
Ma questa deve accompagnarsi ad un investimento sulle persone che non si limiti a istruirle su come connettersi, altrimenti il fallimento sarà garantito.
Virtuale è reale dobbiamo capirlo tutti: dall’imprenditore allo stagista (che peraltro probabilmente già lo sa, meglio dire al collaboratore più prossimo alla pensione che c’è in azienda).
Quando la presenza si trasforma in connessione, la scrittura – che già meriterebbe attenzione e una certa revisione, non solo nelle PA – necessita di essere ulteriormente curata, appresa sia nella forma che nel suo potenziale comunicativo e relazionale.
Roberta Zantedeschi